Un artwork di Soultice in cui il personaggio si muove all'interno di un enorme scenario, mentre i tentacoli di un mostro si stagliano dalla torre sullo sfondo.

Mi ritengo da sempre un gran fanatico del genere Hack and Slash. Posso dire di averlo gustato in ogni forma e iterazione: ne ho giocati di belli e meno belli, di bellissimi ma mai di bruttissimi.

Non so stabilire con esatta precisione a quando risalga la mia prima comunione con il genere, indubbiamente avvenuta su PlayStation 2 in un periodo compreso (forse) fra il 2002 e il 2004. Al contrario ricordo bene con “cosa” avvenne. Il mio personale battesimo del fuoco mi è stato servito da quel videogioco che ha dettato per decenni le regole dello Stylish Action: Devil May Cry.

Con riferimenti simili è difficile non imporsi degli standard, tutti generalmente molto rigidi. Eppure come dicevo nell’introduzione, “ne ho giocati di belli e meno belli, ma mai di bruttissimi”. La ragione credo risieda nel fatto che le varie eredità stilistiche ed estetiche, che i vari hack and slash hanno dettato negli ultimi decenni, hanno finto (come frequentemente accade in ambito artistico) per definire delle coordinate precise; punti da cui oggi non credo si possa prescindere quando si realizza un videogioco di questo genere. Soulstice ne è una prova.

Frutto del lavoro dei nostrani Reply Games Studios, e prodotto da Modus Games, Soulstice è il gioco che mancava, quell’esperienza dal timbro classico che da tempo, troppo a dir la verità, latitava nella proposta ludica recente. Sarà forse vero che il tramonto si staglia sopra il genere, ma non oggi, non dopo Soulstice. Non mi va di nascondere l’entusiasmo, non per campanilismo sia chiaro, quanto più per la genuinità di un’opera che sa rispettare gli standard di cui sopra, arricchendoli con una storia tutt’altro che marginale e con un richiamo estetico semplicemente meraviglioso.

Le due protagoniste di Soulstice.

Soulstice: No Dark No Fantasy

Ho un piccolo problema: fatte alcune eccezioni, difficilmente tollero quel fantasy privo di componenti grim/dark. È un dato di fatto per me, forse come conseguenza della mia educazione letteraria pesantemente influenzata dall’estetica giapponese. E a proposito di estetica giapponese, Soulstice ne è madido fino al midollo. Due opere in primis: Claymore di Yagi Norihiro e, naturalmente, Berserk di Miura Kentaro (senza il quale Claymore non esisterebbe neppure). In Soulstice i riferimenti a queste due opere sono costanti, non solo nella componente visiva (armi, armature e mostri) ma persino nell’intreccio della storia. C’è molto Giappone in Soulstice, ed è una goduria. Un vero e proprio atto d’amore potremmo dire. Ma veniamo concretamente al gioco.

Le vicende, di cui vi accennerò brevemente, si aprono ai margini di Ilden, l’imponente città che fungerà da palcoscenico all’intera storia. Qui vestiremo i panni di Briar e Lute, sorelle e compagne d’armi, per così dire. La particolarità, qui, sta nel fatto che Briar è la spada, mentre Lute lo scudo. Subordinate all’Ordine della Lama Cinerea, le due sorelle rappresentano l’arma risolutiva dell’umanità contro le corruzioni del Velo, un caos primevo portatore di distruzione. Già da queste poche informazioni traspare la mitologia, tutt’altro che banale, creata ad hoc per questo gioco. Troveremo infatti dozzine di riferimenti di carattere deistico che, da aspirate scrittore, ho trovato nel complesso ben pensati, scritti e ispirati. Insomma, una lore certosina che appagherà senz’altro chi, come me, da un ampio giudizio a questo lato dell’esperienza.

Tornando alle nostre protagoniste, avevo momentaneamente omesso un dettaglio di fondamentale importanza: Briar e Lute non sono più propriamente umane. La prima è una Paladina Cinerea, una guerriera dalle capacità sovrumane, mentre la seconda un’Ombra, uno spirito legato indissolubilmente al suo Paladino, che supporterà in combattimento e non solo. I caratteri delle due sono tanti simili quanto distanti: entrambe possiedono un forte senso del dovere, divergendo però in altro. Lute appare come la ragazzina che è, quindi più dolce, ma anche Ingenua. Briar invece, pur non essendo mai burbera o stolida, è più ferma e realista; un po’ come Claire in Claymore.

Le ragioni per cui le due si ritrovano a Ilden è da imputare a un evento cataclismico, una gigantesca breccia dimensionale, uno squarcio nel Velo. La sua singolare comparsa ha portato la corruzione fra le strade di quella che un tempo era una gloriosa e fiorente città, trasformandola in una gelida tomba infestata da spiriti ed esseri ameni.

Come ho già detto, Ilden rappresenterà il palcoscenico dell’intera storia. Una città dedalo per certi versi, che dovremo risalire a partire dai suoi bassifondi fino ad arrivare al suo vertice, nell’luogo sopra cui si staglia la breccia, minacciosa e sempre ben visibile ogniqualvolta ci ritroveremo all’aperto. Seppur in un primo momento la ripetitività della città potrebbe instillare qualche perplessità, nel tempo ci si renderà invece conto della sua notevole stratificazione. Il raggiungimento del nostro obiettivo sarà infatti una lunga scalata, dandoci quella reale sensazione di enormità che una città dalle fattezze di Ilden dovrebbe, in teoria, instillare nei giocatori.

uno scenario di Soultice.

Una frenesia in via di estinzione

Sono diversi i pilastri su cui è basata l’equazione di un buon hack and slash. Fattori come character design, environmental design e gameplay sono a mio avviso imprescindibili: una buona coesione di questi tre fattori risulta essenziale in termini di resa finale. Naturalmente il comparto narratologico svolge un ruolo senz’altro nevralgico, ma a mio avviso meno incisivo. In relazione a ciò, Soulstice come si comporta?

Parto dicendovi che il suo gameplay brilla ma non acceca. L’esperienza è “mostruosamente” cinetica, come il gotha del genere pretende, lanciando il giocatore in scontri sempre più intesi e a tratti frustranti – sensazione che aumenta o diminuisce in relazione alla difficoltà optata – e con una scelta “tattica” che non consiglio di sottostimare. Il gioco propone una tutt’altro che risicata gamma di ferri del mestiere, fino a sette armi pensate per affrontare ogni evenienza: spadoni e martelli per infrangere barriere, così come archi e fruste pensati per fronteggiare gruppi di nemici leggeri e volanti. L’imbarazzo è nella scelta. Tuttavia è proprio nelle azioni più dinamiche che sorgono le prime incrinature: il sistema di lock dei bersagli è più ostacolante che altro, finendolo per disattivare non appena il campo di battaglia si farà più denso di nemici. Troppe sono state le imprecazioni.

Come da tradizione, inoltre, ogni mob distrutto rilascerà un loot, in genere punti vita e/o frammenti di cobalto e cristallo, la valuta del gioco.

Ma in tutto ciò Lute? La nostra Ombra sarà fondamentale nella progressione del gioco. Essa disporrà di un’ampia pletora di attacchi e difese magiche, che annulleranno le azioni offensive dei nemici, immobilizzando al contempo i mob più deboli, dando così alla paladina tutto il tempo per poter attaccare indisturbata.

Le combo, anima indiscussa del genere, saranno ancora una volta centrali. Ogni arma disporrà di un numero limitato ma non striminzito di combo, che potranno essere implementate acquistandole a ogni fine livello o interagendo con Layton, personaggio ambiguo che fungerà da “punto ristoro” per la paladina. Da lui potremo acquistare anche i classici consumabili che vanno da frammenti verdi di cristallo per recuperare punti vita, fino a intrugli per tenere a bada l’entropia (che vedremo a breve). Anche Lute potrà essere potenziata, anzi, in particolare lei godrà di un perk tree dedicato, vasto e stratificato, con cui il giocatore dovrà interagire con attenzione, senza spese punti casuali.

I mob che andremo ad affrontare non sono tutti uguali, naturalmente, ma a differenza di altri titoli, alcuni potranno essere affrontati soddisfacendo alcune condizioni. In relazione a ciò, famigliarizzeremo molto in fretta con una peculiarità: I campi. Questi sono due, di Evocazione ed Esilio, contraddistinti – alla maniera di Castlevania: Lords of Shadows – in blu e rosso. Questi possono essere attivati esclusivamente da Lute, e permettono a Briar di poter affrontare nemici altrimenti invulnerabili ai comuni attacchi. Durante la progressione nel gioco, saremo costretti a dover ricorrere a uno switch costante dei due campi, rendendo i combattimenti ulteriormente ostici. Va perentoriamente detto che la nostra Lute non potrà abusare di questa capacità, pena l’aumento dell’Entropia, una sorta di fattore di tollerabilità oltre il quale l’Ombra non deve spingersi, salvo poi scomparire dal campo di battaglia per alcuni secondi. Ad alti livelli di difficoltà, quei secondi vi assicuro che equivalgono a ore.

Dopo aver famigliarizzato con il combat system, nel complesso valido e divertente, si potranno affrontare ordalie via via sempre più assortite e pericolose, che obbligheranno il giocatore a un ricorso oculato del proprio arsenale, valutando quale arma sia più efficace per affrontare ogni singola minaccia, e quali attacchi si prestano meglio per concluderlo nel minor tempo possibile. La celerità degli scontri, così come i danni subiti e inflitti, verranno valutati attraverso sei gradi: Ferro, bronzo, argento, oro, platino e diamante; un classico, più o meno.

Come se già la carne al fuoco non fosse abbastanza, un’altra feature, decisamente importante, viene in soccorso del giocatore: la Coesione. Questa indica, letteralmente, il livello di sincronia fra Briar e Lute, che attraverso un indicatore nell’angolo destro dello schermo, segnerà l’aumento o la diminuzione della coesione delle due sorelle durante le fasi combattimento. Quando l’indicatore avrà raggiunto una certa soglia, potremo sferrare devastanti attacchi finali, qui chiamati Attacchi Sinergici, o addirittura accedere a un secondo e molto più potente stadio di Briar; uno stato accessibile esclusivamente dopo essere entrati in modalità Furore: il classico override che ogni hack and slash che si rispetti possiede.

La protagonista di Soulstice corre su un molo durante una tempesta, mentre un veliero viene sballottato dai flutti.

Quel platforming un po’ così…

Per quanto assurdo, le fasi di platforming sono assai diffuse fra gli hack and slash,: God of War, Devil May Cry, così come il compianto Dante’s Inferno ne erano infestati, e Soulstice ancora una volta non fa eccezioni. Il risultato non è mai scontato.

Qui le fasi di platforming sono numerose, tutte più o meno uguali e spesso ridondanti, con una camera che, almeno per quel che mi riguarda, non conferisce mai il giusto senso di profondità, facendoti spesso mancare la base d’appoggio su cui si sta atterrando. Queste fasi vanno affrontate per buona parte dell’esperienza attivando il campo di evocazione, essenziale per rendere tangibili alcune delle suddette basi. A un platforming senza infamia e senza lode si aggregano i pochi enigmi ambientali che troveremo talvolta fra un dedalo e l’altro. Questi mi sono apparsi sbrigativi, poco curanti e ancora una volta ridondanti, una stortura che tuttavia non mina eccessivamente la giocabilità complessiva.

Tanto Giappone e non solo

Lato design, Soulstice appare nel complesso ispirato e appagante da vedere, con un’ambiente che seppur spoglio di vere e proprie interazioni (ho poco apprezzato la mancanza di qualche collezionabile) oltre che zeppo dei soliti tre o quattro modelli distruttibili, è comunque maestoso ed evocativo, conferendo all’avventura un tono dark che gela il giocatore sin in profondità. Le anatomie e le rifiniture dei protagonisti, così come quelle dei mob e relativi boss, faranno la felicità di chiunque, essendo queste uno dei lati più pregevoli del gioco. Da Briar passando per Donovan (fantastico comprimario), sono tutti promossi a pieni voti.  

Nonostante le ovvie influenze, Reply Games mantiene viva la propria originalità, quella tipica di chi si limita a omaggiare piuttosto che a clonare, dando al contempo una prospettiva propedeutica su quanto il fumetto e l’animazione giapponese abbiano contaminato il nostro senso del gusto. Le boss fight, inizialmente fiacche e anonime, lasceranno presto spazio ad avversari forti di un design degno delle più grandi produzioni. Una resa visiva che non si direbbe appartenga a un piccolo studio, che raggiunge il suo zenit proprio nelle fasi culminanti del gioco, quando l’azione concitata assume i suoi connotati più estremi. Peccato solo per quei continui fenomeni di stuttering nelle cutscene, registicamente interessanti, ma prive di una vera e propria impronta musicale, purtroppo debole dall’inizio alla fine.

Parliamoci chiaro: Soulstice è un passo avanti importante per la nostra industria. Un titolo che riesce a sottolineare delle qualità e delle capacità che non sono mai mancate, ma che faticavano a trovare una qualche forma di concretizzazione in un paese sempre troppo indietro. Un gioco ottimo anche se tutt’altro che perfetto, dinamico, appagante e, soprattutto, divertente. Reply ha dimostrato non soltanto di saper masticare molto bene il genere, ma di possedere un respiro artistico che in futuro potrebbe regalarci bellissime sorprese. Arrivati a questo punto vorrei evitare di apparire fin troppo campanilista, non sono il tipo, ragion per cui mi limito a consigliarvi quest’avventura, a viverla e a considerare l’estro tutto italiano che vi si cela dietro. Questo gioco non scuoterà da cima a fondo la nostra industria, tantomeno credo voglia farlo, ma dimostra senz’altro che se vogliamo, seppur timidamente, possiamo esserci anche noi. Direi anche che fosse ora.

 

 



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